De André corregge ... Leopardi !!


 



Sono passati circa sessanta anni! Ne avevo meno di venti quando  Fabrizio De André cantava, per la prima volta,  La canzone dell’Amore Perduto. E fu amore al primo ascolto, come, sempre succedeva con le canzoni di Faber.
 
Certamente tra le più belle del cantautore genovese che ha accompagnato intere generazioni che l'hanno amata, cantata, e ancora, oggi, la cantano  e non come ricordo  deegli anni giovanili, ma perché esprime sentimenti in cui ognuno, ancora oggi, può riconoscersi.

Chi non ha perso un amore? Chi non ha passato notti insonni a tormentarsi per  un amore “così violento,  così fragile, così tenero,  così disperato … per questa cosa … vera come una pianta, tremante come un uccello, calda e viva come l’estate”(Jacques Prévert). Chi non ha  coperto d’oro -  per un bacio mai dato - per un amore nuovo.

Faber, di questa canzone, scrisse soltanto il testo perché la musica è quella del “Concerto in re maggiore per tromba, archi, basso e continuo” di Georg Philipp Telemann, un compositore tedesco del Settecento. 

 

La Canzone dell'amore perduto


Ricordi sbocciavano le viole

Con le nostre parole

Non ci lasceremo mai e poi mai

Vorrei dirti ora le stesse cose

 Ma come fan presto, amore, ad appassir le rose

Cosi per noi

L’amore che strappa i capelli è perduto ormai,

non resta che qualche svogliata carezza

e un po’ di tenerezza.

E quando ti troverai in mano 

quei fiori appassiti al sole

d'un aprile ormai lontano

li rimpiangerai

ma sarà la prima che incontri per strada

che tu coprirai d'oro per un bacio mai dato

per un amore nuovo.

Il grande amore, come lo sono tutti quando esplodono,  può inaridirsi molto presto tra lo sbocciare delle viole e l’appassire delle rose

La canzone, però, è, nello stesso tempo, la morte e il trionfo  dell’Amore come forza vitale che non trova requie e che ha bisogno di un continuo trapasso per vivere e dare vita.

Nel testo, seguendo il ritmo delle stagioni, troviamo prima le viole e poi le rose, così come esse fioriscono: le prime a Marzo e le seconde a Maggio. Perciò, Leopardi ne “Il Sabato del Villaggio” non poteva vedere la donzelletta che reca in mano un mazzolin di rose e di viole. 

Questa critica fu mossa da Giovanni Pascoli nel Marzo del 1896, quando, nel tenere una conferenza su Il “Sabato del Villaggio”, disse che Leopardi non aveva potuto vedere il mazzolin di rose e di viole, ma semplicemente dei fiori. 

Il poeta di S. Mauro di Romagna  osservava che Leopardi era incorso nell’errore dell’indeterminatezza e del falso. La lettura Pascoliana innescò una forte reazione e una difesa ad oltranza di Leopardi: ci fu chi affermò che già altri poeti avevano messo insieme le viole e le rose ricordando classici come la poetessa  Saffo.

Mentre la “Rivista di Studi Leopardiani”, nel 2.000, arrivò, come racconta Ranieri Polese, con Francesca Romano Berno ad una ardita precisazione botanica: delle tre specie di viole, una, la cosiddetta viola ciocca, fiorisce di maggio, e quindi può stare bene insieme alle rose.

De André, forse, inconsapevolmente, separò ciò che Giacomo Leopardi, con immaginazione poetica, aveva unito in un solo “mazzolin”!


                                               Beniamino Iasiello 


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